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Ieri siamo andati in parecchi al Day Light, l’ingresso a monte del fiume sotterraneo, inizio del sistema. C’erano diverse cose importanti da fare, tra le quali la scansione laser e una nuova poligonale sia della parte iniziale che della galleria sottostante, sino al primo tratto allagato.

Ci si arriva in un’ora scarsa di cammino, prima costeggiando le verdi risaie e poi addentrandosi nella foresta pluviale. Un’ultima faticosa e sudata rampa alta una cinquantina di metri porta al cavernone che rappresenta l’ingresso fossile. In fondo, dopo una serie di passaggi che più scivolosi non si può, si spalanca il nero della galleria sottostante: uno scivolo di una quindicina di metri seguito da un salto di 25 metri nel vuoto consentono di mettere i piedi sul greto umido del livello di base. Furono i primi esploratori australiani che lo battezzarono cosi, quando vi arrivarono nel 1982: day light, luce del giorno, perché è ciò che si vede guardando in alto.

 

Precedo gli altri e scendo. Quando arrivo giù, avendo tempo a disposizione, decido di fare un giro verso la parte a monte. Andare da soli in queste grotte tropicali è stimolante come nelle grotte normali, ma qui si aggiunge un po’ di inquietudine per il tipo di incontri che si possono fare. La fauna del Puerto Princesa Underground River è varia, articolata e a volte temibile.

Risalgo una frana tra le rondini che volteggiano emettendo il loro tipico ticchettio da ecolocazione. Dopo un passaggio tra due massi mi giro di scatto a sinistra, quasi sapendo quello che vedrò: sul lato di un pietrone una scutigera gigante mi osserva. È lunga almeno una trentina di centimetri e non ne ho mai viste di cosi grandi: mi fa più paura delle migali (le tarantole pelose) perché con le sue 15 paia di sottili zampe è leggera, veloce e, quando raggiunge queste dimensioni, molto velenosa.

Giro al largo e decido di tornare sui miei passi, anche perché gli altri stanno scendendo il P 25. Quando arriva Leo Piccini, tira fuori un disegno con il rilievo esistente e mi mostra alcuni punti che non sono chiari, che è poi il motivo per cui sta rifacendo la poligonale principale aiutato da Ilenia. Sopra di noi occhieggia l’inizio di una galleria alta, inesplorata: decido di risalire un’altra frana per avvicinarmi e dare un riferimento visivo a Leonardo nella misurazione. Lentamente vado su, avvistando ed evitando un paio di migali nella loro tana. Quando arrivo in cima mi accorgo di essere risalito di 25-30 metri e in pratica sono davanti all’attacco del pozzo di accesso del Day Light. La galleria inesplorata parte una decina di metri più in alto, ma si può raggiungere con meno sforzo attraverso un balcone superiore che potremo raggiungere un’altra volta. Mentre valuto le possibilità esplorative giro lo sguardo nell’ambiente in cui mi trovo e rimango folgorato. A una decina di metri da me, sulla faccia verticale di una grossa pietra, appare una scritta: Day Light, con accanto un freccia che indica il pozzo di accesso. E sotto le sigle TB, MT, ADV seguite da una data: 12/2/89.

Rimango emozionato e perplesso. È mia, ma non ricordavo di averla fatta. Probabilmente fu al termine di una punta di topografia, quando arrivai qui con Marco Topani e Antonio de Vivo, durante la prima spedizione in Filippine. Tono lo conoscevo appena, tanto che nelle iniziali scrissi una più formale A invece che la T degli anni a venire. Chiedo la macchina fotografica a Tommaso e a Ilenia di aiutarmi nello scatto: non posso non ritrarmi di fianco a quella scritta, oltre 28 anni dopo, perché rappresenta un momento importante. Fa parte di un breve periodo, una quindicina di mesi, in cui accaddero eventi speleologici che hanno condizionato la vita, non solo speleo, sia mia che di molte persone vicino a me.

Meno di 4 mesi prima, ottobre 1988, con Marco, Dino Bonucci e Matteo Diana avevamo messo la parola fine alla corsa al fondo di Pozzo della Neve, entrando con il sifone chiuso e forzando fino a -1050, secondo “meno mille” italiano. Pochi mesi dopo avremmo iniziato, con Samarcanda 89, l’epopea delle grandi spedizioni all’estero e nella fattispecie le ricerche internazionali in Asia centrale, che ancora oggi vanno avanti. Appena rientrati in Italia, agosto 1989, saremmo stati coinvolti nella corsa felicemente definita “a ostacoli” al fondo di Cul di Bove, in Matese. E infine nel gennaio 1990, meno di un anno dopo, avremmo sceso il canyon del Rio la Venta: sempre i tre delle firme sulla pietra più Gaetano Boldrini, Matteo Diana e Marco Leonardi. Di lì a poco sarebbe stata fondata l’associazione che ci ha portato sino a qui, trasformando i sogni di un gruppo di amici in qualcosa che ancora, forse, non riusciamo a comprendere. Quella data, 12 febbraio 1989, è parte della storia.

Tullio Bernabei

Partecipano: Ada De Matteo, Alessio Romeo, Antonio De Vivo, Carla Corongiu, Chiara Paniccia, Fabio Giannuzzi, Felice La Rocca, Gaetano Boldrini, Giorgio Annichini, Giovanni Fiorini, Ilenia D’Angeli, Jo De Waele, José Calaforra, Laura Sanna, Leonardo Colavita, Leonardo Piccini, Luca Massa, Marco Camorani, Marco Vattano, Marta Ciaramella, Martino Frova, Paolo Agnelli, Stefano Vanni, Tommaso Santagata, Tullio Bernabei, Vittorio Crobu.

Enti di ricerca coinvolti: Università di Bologna, Università di Firenze, Museo di Storia Naturale di Firenze, Istituto Nazionale di Fisica Nucleare di Torino, Università di Almeria.

Patrocini: Ambasciata Italiana in Filippine, Pilippines – Italy Debt for Development Swap Program, Puerto Princesa National Park, Tagbalay Foundation, City of Puerto Princesa.

Sponsor: Leica Italia, Laserscangst, Eragest di Tiziano Conte, Lifesaver, Amphibious, Ferrino, De Walt, Dolomite, Scurion, Tiberino.

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